BUONA VISIONE A TUTTI E BUON ASCOLTO DI RCR RADIO CENTRO ROSETO.

 

VENT’ANNI SENZA FABRIZIO DE ANDRÉ

Antonio Monaco

Vent’anni senza Faber. Un tempo sufficiente per iniziarlo a considerare in una prospettiva storica tanto della musica quanto, meglio ancora, della cultura italiana. Di lui è stato detto pressoché tutto e, come è destino dei grandi, le sue canzoni, la sua lingua, quel modo di fare musica sono nel frattempo divenuti patrimonio comune, lessico familiare. Si può tentare, invece, di ragionare in termini di contemporaneità, cercando di capire come e perché Fabrizio De André trova, ancora oggi, tanta eco, quali reazioni e sentimenti suscita in chi è stato adolescente con le sue canzoni e in chi lo conosce a memoria anche se nato dopo la sua morte. Alberto Moravia, nella celebre orazione funebre che tenne per Pier Paolo Pasolini, disse che con PPP si perdeva un poeta e che di poeti, in un secolo, ne nascono due o tre al massimo. Ecco, non è fuori luogo usare gli stessi termini per Fabrizio De André, cosa che sgombera subito il campo da una delle aporie  recenti più bolse e che, in modo esemplare, si è svolta nella polemica tra Red Ronnie e Mara Maionchi di qualche giorno fa: i talent ammazzano gli “eretici” della canzone (vero), gli “eretici” non ci sono e quindi non si producono (vero). Ecco, è perfettamente inutile, stupido pure, cincischiare sui passatismi, “la musica di oggi, ai miei tempi invece”. Qual è quindi il punto? Oggi abbiamo bravissimi cantautori (uno su tutti? Motta. Non l’unico), nessun De Andrè, mica per colpa dei talent e del mercato, ma perché geniacci così ne nascono due o tre al secolo. Genio, sì, a patto quindi che ci si intenda su una delle parole più abusate e bistrattate del vocabolario. Al lampo creativo, infatti, Faber ha sempre e costantemente accostato un metodo rigorosissimo, selettivo, spietato quasi, perché il diamante grezzo della genialità non temperato da un metodo perde di molto il suo valore.  Ed ecco un primo punto che distanzia di anni luce la sua musica dal “resto”: la possibilità e il tempo di limare con ossessione e maniacalità il materiale musicale e interiore per farne un qualcosa di unico e di prezioso. Un tempo, questo sì, che non è più nella disponibilità dei musicisti né viene concesso per una serie di complesse ragioni tecniche, che si riassumono nelle regole di mercato delle major internazionali. Se manca un’industria artigianale italiana della produzione musicale, come si può sperare che si coltivino adeguatamente i talenti di casa? Gli anni dei cantautori italiani, dalla RCA alla CGD alla Numero1, erano contrassegnati da laboratori creativi (ed economici) tutti “made in Italy” per gusto e sensibilità e davano ai loro artisti il tempo sufficiente per arrivare con soddisfazione a realizzare idee. Infrastrutture adeguate, insomma. Luoghi, soprattutto, dove gli artisti potevano incontrarsi, perdere tempo, suonare, parlare, mangiare insieme, creare, loro malgrado, un “ambiente” propizio all’osmosi. Da qui una serie di corollari. Si è parlato sempre dell’influenza di Brassens e del perimetro francese da nouveau roman con riferimento alla musica di De Andrè. Ma, a parte che tra gli effetti della liquidità contemporanea c’è stata la perdita di correnti culturali solide e capaci di determinare gusti, anticipando i movimenti delle società, quello che oggi è difficile insegnare è la capacità di ascolto interiore. De Andrè ha fatto propria, tra l’altro, una certa atmosfera culturale perché è stato capace di permearsene con l’ascolto. Obiezione: ma la musica contemporanea è pienamente internazionalizzata e filtrante; non è vero, lo è negli stilemi (la pappardella dell’hip-hop, della trap, dei vocalizzi X-Factor) ma non ci si ascolta affatto nel messaggio “dietro” lo stilema, l’unico capace di rendere un artista parte di qualcosa e allo stesso tempo originale ed estraneo a tutto il resto, impermeabile e permeabile alle buone idee dell’arte.
Quindi, procedendo, l’adeguamento a metodi di produzione frettolosi e la mancanza di ascolto si è mescolata con uno degli altri grandi demoni della contemporaneità, con il quale ci confrontiamo quotidianamente tra il dibattito politico, morale e culturale: la completa assenza di amore per la complessità. Complessità della realtà, degli stati d’animo, dei comportamenti umani, del ragionamento, insomma, troppo spesso asfaltato da risse biliose che non sono altro che scorciatoie del pensiero, rattrappimenti che impongono schemi semplici, veloci, smart, leggeri come il touch su uno schermo (e giù a manicheismi: melodici/rapper; populisti/elitaristi; vaccinisti/novax, addirittura). Le canzoni di De Andrè, invece, hanno l’insuperabile grandezza di raggiungere la complessità attraverso un linguaggio semplice (“se capisci concetti difficili, li sai spiegare in modo facile”, insegnava Giuseppe Ungaretti ai suoi studenti di Letteratura a Roma). Se la canzone italiana, ma non da sola, pencola oggi tra soporifere storielle d’amore, slanci civici a pelo d’acqua e goffe prove d’ingarbugliamento semantico è perché non sa più entrare in contatto con la vera complessità dell’uomo, esattamente quella che Faber ha centrato e cantato per una vita, semplice come se fosse facile. Gli ultimi, ma non tanto e non solo per censo e ceto, ma per condizione esistenziale, i bassi e i recessi che non si fanno imitazioni nè trompe l'oeil, ma sanno raccontarsi, sbalzati in un realismo espressivo, inarrivabile. E sul tema della complessità del reale e dell’uomo passa la grande sfida etica e culturale di oggi. Nella musica come nella politica (che De Andrè fece eccome, nel suo senso ideale, però) chi può permettersi un ragionamento articolato senza esser subito aggredito da partigianerie, insulti o ovazioni acritiche? Da Faber, strutture armoniche essenziali, arrangiamenti (solo apparentemente) accessibili, testi limpidi per la lingua, ermetici per i rimandi. Un miracoloso equilibrio che non ci manca, perché ce l’ha lasciato. E’ un affare proprio della nostra identità culturale e del quale dobbiamo essere grati all’amico fragile, che aveva proprio ragione: era meno stanco di noi, era molto meno stanco di noi.